Il delitto del trolley

Ahimè, inizio ad essere un cronista sufficientemente vecchio da aver scritto e raccontato di svariati omicidi. E nessun omicidio, ovviamente, è privo di crudeltà. Ma una malvagità così marcata, così evidente, così atroce io davvero non l’avevo ancora vista. Ci sono fatti che mi turbano di più, come quando le vittime sono i bambini (ci sto proprio male, fisicamente dico), ma in questo omicidio c’è una pianificazione e ci sono dinamiche d’esecuzione che hanno del diabolico. Il tutto condito dalla considerazione che ci mancava davvero un nonnulla perché si fosse di fronte al delitto perfetto. Un uomo anziano, senza parenti, praticamente senza amici e costantemente in viaggio dall’altra parte del mondo: se fosse sparito, nessuno lo avrebbe cercato, nessuno se ne sarebbe accorto. O quantomeno sarebbe passato molto tempo prima che qualcuno se ne accorgesse, il tempo sufficiente – magari – per rifarsi una vita a qualche fuso di distanza e sfruttando il suo denaro.

Perché pare proprio che sia questo il movente: i soldi. E, nello specifico, intercettare con un maneggio informatico la pensione dell’ex professore universitario Adriano Manesco, 77 anni, milanese, e pure i quattrini del suo conto in banca. Un flusso di denaro sicuro per un tempo abbastanza lungo. Tanto bastava, secondo gli inquirenti, per progettare meticolosamente quello che è stato poi eseguito altrettanto meticolosamente. Un progetto sconcertante e un’esecuzione ancora più sconcertante perché non stiamo parlando di una “banale” uccisione all’arma bianca; stiamo parlando dell’incredibile operazione di depezzamento di un corpo umano per fare in modo che non venisse ritrovato; stiamo parlando di segare ossa, tagliare membra, organi, arti, e di confezionare sacchi di plastica: otto ne sono stati preparati, ognuno con un pezzetto di Adriano Manesco, e tutti poi infilati in un trolley da viaggio destinato al macero. La testa, mozzata, era avvolta con metri di nastro adesivo nero in modo che in una discarica si potesse confondere tra i rifiuti. Le mani tagliate, le impronte digitali abrase. Roba da macellai di un qualche girone dantesco che non riesco nemmeno a individuare.

Ci vuole tempo per fare tutto questo. Ci vuole uno stomaco d’acciaio, una certa perizia anatomica e soprattutto ci vuole malvagità. Bisogna essere persone cattive per fare quello che è stato fatto a quel vecchio uomo. Bisogna essere cattivi per progettare, studiare ed eseguire una cosa del genere. Non c’è raptus, non c’è passione, non c’è gelosia e non c’è nemmeno la fame che ti porta a sragionare.

E fin qui i fatti. Poi ci sono le persone. Il presupposto del lavoro di ogni buon cronista, ma anche di ogni cittadino di buon senso che consideri il garantismo un valore assoluto per una democrazia degna di questo nome, è la prudenza. Condizionali a gogò, quindi, ma se venisse confermato che a fare tutto questo macello sono davvero stati i due giovani di cui sto guardando proprio ora le facce divertite e spensierate nei selfie feisbucchiani, c’è da rimanere a bocca spalancata. Giovani per bene, come si dice in questi casi. Qui li conoscono, in città si vedevano: famiglie come tante, ambienti sani, comuni, evoluti. Giusto nell’ufficio di fianco al mio c’è una ragazza che solo qualche tempo fa aveva una mezza intenzione di presentare a uno dei due presunti assassini (il più carino dei due) una sua cara amica per favorire, come dire, un incontro galante. Ragazzi pienamente inseriti nella società di una città del nord, dunque; una città moderatamente ricca, moderna. Nessuna condizione di marginalità e di degrado, dunque; di quelle che trasformano le persone in bestie affamate e ignoranti.

Se è quindi vero quello che sembra siamo di fronte a una nuova figura di killer e a una nuova specie di delitti; siamo di fronte a persone che stanno bene (in tutti i sensi: economicamente, relazioni sociali, famiglia) ma che per migliorare, magari di poco, le loro condizioni di vita considerano l’uccisione e lo smembramento di un uomo una possibilità serenamente percorribile. E la mettono in pratica.

E se invece non è vero quello che sembra, se invece Gianluca Civardi e Paolo Grassi non hanno ucciso Adriano Manesco, siamo di fronte al delitto perfetto per eccellenza: non semplicemente un delitto senza un colpevole ma un delitto con un colpevole innocente.

Andrea Pasquali, Piacenza24, agosto 2014

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