Cena di merda

I viaggi in autostrada col traffico rendono peggiori gli esseri umani, anche i migliori. Se poi esseri umani adulti condividono il viaggio con esseri umani non adulti, la miscela è esplosiva. Esiste, tuttavia, un “a meno che”: i viaggi in autostrada col traffico sono infernali a meno che non venga il guizzo giusto.

E’ la fine di agosto di qualche anno fa. Io e mia moglie Francesca, in viaggio da Alba Adriatica a Piacenza, decidiamo di fare tappa a Parma per cena dopo un viaggetto di sei ore trascorse quasi interamente in coda per via del rientro intelligente. Con noi ci sono i figli che abbiamo messo al mondo: Cecilia, cinque anni e mezzo, e Gabriele, un anno e mezzo. L’intenzione è quella di andare in una trattoria di cui abbiamo un vago ricordo ma non riusciamo a trovare il numero di telefono. Decidiamo di chiamare il famoso e all’epoca strapubblicizzato 89 24 24, quello dello spot con Claudio Bisio per intenderci. La giovane donna del centralino è molto cortese e dopo averci comunicato il numero che abbiamo chiesto, ci propone un’alternativa comoda: ottimo ristorantino, dice, dove si mangia benissimo e si spende in modo ragionevole. Decidiamo di darle retta visto che è di strada e i bambini hanno una tale fame che inizia a diventare problematica soprattutto per il secondogenito (i morsi animaleschi ai giocattoli da viaggio ne sono un chiaro sintomo).

Il ristorante è centralissimo e in effetti davvero stiloso: métre incravattato, camerieri in livrea, menù da acquolina, vini da intenditore, ambiente raffinato. Il mio nucleo famigliare è indecoroso e, nonostante il mio riconosciuto gusto per il grottesco, avverto una punta di fastidio: siamo in infradito di gomma, bermuda da spiaggia e tshirt pezzate; i bambini sembrano fuggiti da una favela. 

Mi scuso subito per l’abbigliamento, spiego il contesto con un linguaggio che mi renda credibile e accenno alla segnalazione ricevuta dall’89 24 24. Il personale si dimostra squisito fin da subito, fin da quando il bellicoso Gabrielino detto Gabibbo rivela alla sala di essere in grande spolvero iniziando a colpire con vigore i piatti del pregiato servizio in porcellana con il manico di un pesante coltello in argento usato a mo’ di martello. Nonostante ciò, tutti gentili, tutti comprensivi; mille attenzioni di quelle che ti fanno venir voglia di farti perdonare ripresentandoti l’indomani, possibilmente in smoking. Imperterrito, il bellicoso Gabibbo lancia oggetti in ogni direzione: panini caldi, pezzi di burro, posate. I camerieri, stoici e serafici, raccolgono e sorridono. Io e mia moglie, sudatissimi, tentiamo di arginare la furia del maschietto passando dal rimprovero alle percosse, totalmente inutili. Il bambino ride e se ne strafotte. I clienti non sono tanti, è il 19 agosto, ma sono divisi nell’espressione dei volti: alcuni ridono sotto i baffi (forse sono genitori o nonni), altri è evidente che vorrebbero sterminare la nostra famiglia, spazzarla via dalla faccia della terra, e vorrebbero farlo ora. Io e mia moglie non abbiamo soluzioni. Incrociando lo sguardo con quello di una signora alle mie spalle accenno un “ci scusi, sarà lo stress del viaggio”. Lei non risponde e ho la sensazione di intravedere un paio di piccoli teschi al posto delle sue pupille.

In quel mentre, il divertitissimo Gabriele (che gode spudoratamente vedendoci indaffarati nel tentativo di tamponare i suoi danni) afferra uno dei pennarelli della sorella, toglie il tappo e prima che noi adulti riusciamo ad emettere un suono dipinge graziosi origami color arancio sulla tovaglia candida. Passa il métre e io d’istinto, come un ragazzino colto con le mani nella marmellata, copro gli origami col tovagliolo. Lui se ne accorge, io mi accorgo che se ne accorge e confesso: mi deve scusare, dico davvero; la prego di mettermi in conto la lavanderia, la tovaglia, l’affitto del locale, le rate della sua auto, tutto. Lasci stare, dice lui: cose che capitano. E subito aggiunge a mezza bocca: la tovaglia comunque è il meno. Mi volto: il Gabibbo sta affrescando il muro bianco con il pennarello di cui, non so come, è riuscito a impossessarsi nuovamente dopo che gli era stato strappato. Gli afferro il braccio grasso, stringo, gli tolgo di mano il pennarello, lui urla, lancia cose, è fuori dalla grazia del Signore. Io e Francesca siamo in evidente imbarazzo e fatichiamo a deglutire le prelibatezze che ci stanno servendo.

Sbrighiamoci a finire ‘sta benedetta cena e andiamocene prima che questo ragazzino demolisca il locale, ci diciamo. Mentre finisco la frase, mi abbasso a raccogliere l’ennesimo oggetto che Gabrielino ha fatto deliberatamente cadere. Ed è lì che realizzo la vera disfatta di quella che doveva essere una cenetta defatigante. C’è merda ovunque. Merda ovunque. 

Il piccolo bastardo, non pago delle sue nefandezze, ha voluto compiere l’atto finale della vendetta per quella che lui deve aver considerato una terribile ingiustizia (rimanere fermo nell’auto in coda) facendosi cogliere da un fulminante attacco diarroico nel pieno della cena. Malauguratamente i suoi movimenti avevano spostato il pannolino quel tanto che bastava perché accadesse ciò che sta, ahinoi, accadendo. Il bambino è totalmente, oscenamente imbrattato. Cacca liquida cola a gocce dal pregiato seggiolone in legno di frassino creando nauseabonde chiazze sul pavimento in cotto.

Guardo mia moglie con occhi spalancati e la informo. Breve pausa. Per un istante ci viene da ridere; quel ridere isterico di chi ha la sensazione di essere stato catapultato in un pellicola di Mel Brooks. All’improvviso il senso pratico femminile emerge con decisione: dammi la tua felpa, mi dice. La estraggo dallo zaino, la consegno obbediente e lei, con mossa fulminea, solleva il bambino lurido dal seggiolone, lo avvolge nella mia felpa e con noncalanche si dirige verso la toilette. Passano alcuni minuti durante i quali non riesco a mangiare e tento di immaginare che soluzione possa avere adottato.

Si apre la porta del bagno e mia moglie, fiera, torna verso il nostro tavolo col bambino in braccio. Gabriele sembra un maori in miniatura: è in canottiera, ha un tovagliolo del ristorante messo a mo’ di pareo polinesiano attorno alla vita e sorride beato digrignando i quattro denti che ha, due sopra, due sotto. Trattengo la risata perché so, so perfettamente che siamo circondati da odio. Mia figlia invece sghignazza senza pudore.

Il peggio è passato, la cena – a Dio piacendo – è ormai finita. Fingendo di raccogliere cose, pulisco la merda dal seggiolone con un altro tovagliolo che poi farò sparire mentre mia moglie ordina i caffè. Niente dessert, signori? La domanda è retorica, naturalmente. Declino e chiedo il conto. Francesca si carica addosso mio figlio in pareo ed esce dal locale scusandosi, salutando con inchini e affrettando il passo.

Grazie, grazie davvero. Torneremo senz’altro, e senza figli. Pago, lascio trenta euro di mancia e mi smaterializzo. 

Un paio di mesi dopo io e mia moglie siamo in effetti tornati in quel ristorante con una coppia di amici, e all’ingresso avevamo una certa inquietudine. Non ci hanno riconosciuti. L’unica spiegazione plausibile è che il passaggio agostano della famiglia Pasquali fosse stato rimosso come quei traumi atroci, sconvolgenti, che poi magari riemergono solo dopo anni durante un doloroso percorso di psicanalisi freudiana.

Lascia un commento