La violenza che si basa sul fanatismo religioso è inestirpabile. A meno che non siano gli stessi leader religiosi a invertire la rotta, come è avvenuto nella Chiesa cattolica attraverso le epoche storiche, dalle Crociate al Concilio vaticano II. Nel caso dell’Islam, tuttavia, l’inversione di rotta appare un’operazione tutt’altro che semplice, e questo va detto a chiarissime lettere senza menare troppo il cane per l’aia. Non c’è un vertice nella religione di Allah, non c’è un capo supremo, non esiste qualcosa di simile a un Papa che parli ex cathedra, che fornisca indicazioni riconosciute valide dall’intera comunità di fedeli. Al contrario, c’è una serie infinita di imam che interpreta in modo disomogeneo un testo antico, complicato ed equivoco come il Corano. Testo che contiene messaggi di pace, è indiscutibile, ma che contiene anche una considerevole dose di violenza.
Il vero problema dell’Islam, dunque, è che il Corano non è un libro “interpretabile”. Il Corano è Dio stesso che parla, è stato scritto direttamente da Dio, non dal Profeta o, per fare un parallelismo con il Vangelo cristiano, dagli evangelisti. Il Corano, quindi, ha un valore universale ed eterno anche se “appartiene” a un’epoca lontanissima, epoca nella quale il concetto stesso di violenza rispondeva a parametri distanti anni luce da quelli attuali. Anche nella Bibbia, e in particolare nell’Antico testamento, ci sono passaggi decisamente contrari a ciò che oggi viene riconosciuto come l’insieme dei “diritti umani”; ma i cristiani hanno la possibilità di interpretare il testo sacro, adattarlo alle epoche e applicarne i valori in modo adeguato. I musulmani teoricamente no. E’, semmai, una questione di traduzioni. Ma anche in quelle più edulcorate, si fa fatica a non leggere violenza in certe sure.
Ecco dunque la madre di tutti i problemi: se il Libro sacro non è interpretabile ma è da seguire dalla prima all’ultima parola, chi è un “buon musulmano”? Lo è chi tiene conto di uno dei passaggi più citati da coloro che considerano il Corano un libro di pace (Papa Francesco compreso), e cioè «chiunque uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera»? Oppure lo è chi tiene conto di passaggi come «i musulmani devono circondare gli infedeli e metterli a morte ovunque li trovino»? Questione spinosa.
Sul tema c’è un volume, molto discusso e addirittura bandito dalle librerie francesi, che pone in modo forte certi equivoci della religione di Allah; si chiama “Pensare l’Islam” ed è del filosofo ateo Michel Onfray. Ne consiglio una cauta ma attenta lettura.
Va detto comunque che si registrano spesso in tutto il mondo prese di posizione alquanto decise contro il terrorismo da parte di molti esponenti dell’Islam (associazioni, comunità, circoli culturali) ma resta il problema di fondo: ci sono persone che, professandosi di fede musulmana e dichiarando di agire seguendo la lettera del Corano, ritengono che noi occidentali siamo da convertire o, in alternativa, da sterminare in massa. E questo perché, secondo alcuni, sta scritto proprio nel Corano. E a leggerne certi passaggi pare che in effetti sia così.
E’ un problema serio perché chi vive questa missione è pronto a morire per portarla a termine. E se il nemico non ha paura di morire, se il nemico è pronto a uccidere innocenti (vecchi, donne, bambini) perché si ritiene nel giusto, perché crede di fare il volere di Dio, non c’è esercito che tenga, non c’è intelligence che abbia margine di successo preventivo.
E ora che questi terroristi si sono messi a scagliarci addosso auto e tir invece che bombe e raffiche di mitra, è peggio ancora, è un incubo del quale non si riesce a intravedere una fine, un risveglio: può accadere veramente ovunque, in qualunque momento e da parte di chiunque. E non è certo chiudendo i confini o costruendo muri che si elimina il problema, magari fosse così facile. Prova ne è il fatto che i terroristi, nove volte su dieci, sono cittadini del Paese colpito (benché quasi sempre si dica ex post che erano “conosciuti” alle forze dell’ordine).
Eppure nel mondo esistono esempi di comunità miste: cristiani e musulmani che vivono insieme e in pace. Esistono da secoli. Poche, ma esistono. Quindi questa guerra (perché tale è, benché in Occidente l’Isis non si serva di truppe inquadrate ma di cani sciolti, invasati che si immolano alla causa, spesso perché disadattati, deboli, condizionabili) ha altre ragioni. Questa guerra deve avere altre ragioni.
A parte la chiave economica (nei conflitti c’è sempre chi si arricchisce squallidamente, da una parte e dall’altra), una lettura interessante l’ha data il collega Domenico Quirico, inviato speciale della Stampa, unico giornalista rapito dall’Isis, imprigionato per mesi e tornato a casa per poterlo raccontare. Quirico ha spiegato la differenza tra Al Quaeda e il Califfato che oggi ispira tanti attentati sanguinari. La prima aveva nel terrore tout court la propria missione, ma neutralizzato il vertice (Osama Bin Laden), l’organizzazione si è sfaldata come un serpente a cui si mozza la testa. Il secondo, e cioè il Califfato, l’Isis, ha alla sua base un progetto politico, amministrativo, geografico: questi signori vogliono ricostituire lo Stato islamico annullando i confini imposti dalle dinamiche occidentali. Vogliono, cioè, conquistare il mondo. Conquistarlo fisicamente. E la conquista può avvenire in un solo modo se è motivata dalla fede religiosa: sottomettendo i conquistati, convertendoli, oppure sterminandoli dal primo all’ultimo. Terribile. E’ stato fatto anche in nome del Dio cristiano, ma – ricordiamolo a chi lo sbraita nelle discussioni da bar o da social – era il Medioevo.
Ecco, questi signori del terrore islamico ci vogliono far ripiombare nel loro medioevo. Grazie ad Allah siamo nel 2017. Speriamo che basti.
Andrea Pasquali