Parlano di povertà dignitosa, di esseri umani senza niente eppure sereni, gioiosi. Raccontano di uomini, donne e bambini che si accontentano, in pace con la natura, le bestie, il caldo, le zanzare e il mondo intero. Cantano sempre, dicono, quindi sono felici. Parlano di loro come di un esempio da seguire, ne fanno una lezione totale, assoluta: non servono cose – dicono – serve altro, e i poveri del Kenya ne sono la prova vivente.
Eppure c’è qualcosa che non va in questi occhi gialli di bambini neri. Lo sguardo che sta appena dietro i miei occhi bianchi di uomo bianco pieno di cose e condizionato dalla lezione totale, bisognoso di quella lezione, lo nota subito. Lo sguardo del mio istinto, prima ancora dello sguardo dei miei occhi, percepisce il dramma di quei bulbi ocra, l’angoscia, la rabbia. Come in quelle illustrazioni puntinate che se le osservi bene prendono senso e diventano in 3D, i balli e i canti e i sorrisi bianchissimi mi appaiono ora in una forma nuova, sono come un chiodo sulla lavagna, un jab improvviso allo zigomo: è tutta una recita, è la messinscena dell’hakuna matata, la balla colossale del “nessun problema”.
Di problemi ne hanno eccome. Problemi enormi. Questi che ho di fronte sono bambini in guerra, mandati in guerra da madri ragazzine che sfornano creature a raffica, senza nessuna cognizione. Sono bambini che combattono per una caramella, un biscotto stantìo, una bottiglia d’acqua da mezzo litro. Combattono tra loro, si calpestano, sgomitano. I più grandi spingono via i più piccoli, li fanno piangere.
Sono i parassiti del turismo d’Africa che spuntano ovunque dal nulla sulle piste rosse che portano alla savana. Hanno le mani allenate a prendere tutto; sorridono, urlano ciao-ciao-ciao e quando le infilano nei finestrini semiaperti dei fuoristrada carichi di occidentali, diventano pinze potenti che arraffano, agganciano e non mollano.
E’ la loro guerra per il di più, per avere qualcosa che non hanno. E’ la loro guerra quotidiana per diventare come noi.
(Andrea Pasquali, gennaio 2014)